UN RICORDO DEL FUTURO
di Mirco Bertolini
Elena azionò ancora una volta il tergicristalli mormorando maledizioni, non sapeva se fosse peggio la coltre di nebbia che si depositava sul parabrezza o la scia marrone che vi rimaneva sopra una volta pulito. Era ora di cambiare le spazzole, pensò, anzi, sarebbe stato meglio comprare una macchina nuova. La sua vecchia Fiat Punto rifiutava di accendersi una volta su due nelle fredde mattinate d’autunno, e quando lo faceva pareva si dovesse incendiare il motore. Erano molte le cose che avrebbe voluto cambiare nella sua vita, rifletté amaramente.
La strada, prima dell’alba, era un nastro che si snodava davanti a lei, solo un po’ più grigio delle pareti di nebbia che lo circondavano sui lati. Sopra la macchina i rami degli abeti si protendevano fuori dalla coltre di foschia, come gli artigli di mostri pietrificati.
Elena era nervosa, sentiva lo stomaco stretto come da un laccio e le bruciavano gli occhi. Ad un tratto capì che le bruciavano perché stava piangendo. Nonostante la decisione che l’aveva portata a percorrere la tangenziale alle sei di quel mattino fosse stata a lungo ponderata, ciò non la rendeva meno gravosa. Era una cosa grossa “sopprimere una vita innocente”, come le aveva detto la madre al telefono, prima che lei glielo sbattesse in faccia.
Elena si era ritrovata a detestarla in quel momento, la madre la chiamava di rado e una volta nella vita che lei aveva solo bisogno di un’assoluzione materna, non era stata in grado di darle neppure quella. Ma Elena non riusciva più a essere comprensiva, non a ventisei anni, senza un lavoro e con in pancia il figlio di un uomo che le aveva voltato le spalle senza rimorsi. Dopo mesi di angoscia e di sonniferi era giunta ad accettare l’aborto come l’unica sua scelta possibile, o almeno era quello che si ripeteva ogni istante.
Iniziò a piovere sempre più forte, i vetri iniziarono ad appannarsi.
“Merda!”, ringhiò dando uno schiaffo al volante e si protese sul sedile a fianco per prendere un fazzoletto di carta.
Una sagoma sbucò all’improvviso dalla nebbia, Elena fece appena in tempo a pestare il freno e a sterzare. La macchina perse aderenza e fece un giro su se stessa prima di fermarsi al centro della carreggiata, ondeggiando. Elena si fece forza e scese scossa dai tremiti, tenendosi aggrappata alla portiera per non cadere.
Pochi metri più indietro un ragazzo la fissava dal ciglio della strada: aveva ancora il braccio teso con il pollice alzato e la fissava come se non avesse mai visto un’altra donna prima di allora. Indossava un lungo cappotto nero ed era completamente fradicio, si avvicinò esitante alla macchina.
“Va tutto bene?”, le chiese. Elena cercò di parlare ma le tremava la voce. Il ragazzo venne più vicino. “É tutto a posto, signora?”.
Elena si riscosse arrossendo, l’autostoppista era forse più giovane di lei ma non le pareva il caso che la chiamasse “signora”.
“Ma sei pazzo e metterti lì?”, gridò ritrovando le forze.
Lui le restituì lo sguardo, poi si girò a guardare il punto dove si trovava poco prima, oltre quel punto c’era solo uno strapiombo.
“E dove avrei dovuto mettermi?”.
Elena lo fissò con le fronte corrucciata, non sapendo come ribattere. “Dove devi andare?”, gli chiese invece.
“Dove va lei per me va bene”.
Lei lo squadrò. Era un giovane sui vent’anni, piuttosto alto. Sotto l’impermeabile si intravedevano petto e spalle massicci. I capelli castani corti erano incollati alla testa a causa della pioggia. Portava solo una maglietta bianca e un paio di jeans logori. Elena sospirò, non se la sentiva di lasciarlo lì dopo averlo quasi investito.
“Sali”, si limitò a mormorare.
Il motore non si era spento e la Punto si rimise in strada senza problemi, nonostante qualche scricchiolio. Elena tornò a concentrarsi sulla guida, il ragazzo si limitò a stare in silenzio. Il ronzio del motore e il battere della pioggia sui vetri erano gli unici rumori.
Dopo poco Elena si accorse che lui la fissava. Non si limitava a guardarla con la coda dell’occhio, la studiava meravigliato e assorto, come uno scienziato che fissa uno strano animale appena scoperto. Elena cercò di fare finta di nulla per qualche chilometro, ma poi l’imbarazzo ebbe la meglio sulla timidezza:
“Tua madre non ti ha insegnato che è maleducazione fissare la gente?”.
Lui abbassò gli occhi: “In effetti sì, me l’ha insegnato…”.
“E allora perché lo fai?”.
“Perché mi sembra che lei non si senta bene”.
“Sto benissimo”.
“Non credo proprio…”.
“E tu che ne sai di come sto?”.
“Lo so. So un sacco di cose”, aggiunse lui con un sorriso divertito.
Solo in quel momento lei notò che era un ragazzo attraente, aveva lineamenti delicati e occhi profondi. Elena vide che aveva le iridi di colori diversi, una verde e una azzurra.
“E cosa sai?”.
“Magari non si sente bene perché sta andando a fare qualcosa che la fa stare male”.
Ora il ragazzo era di nuovo serio e la fissava, lei sentì l’inquietudine montare dentro di sé.
“Non parlare di cose che non conosci”, lo ammonì.
“Magari se questa cosa la fa stare male, non dovrebbe farla”.
“Smettila, non impicciarti degli affari miei”.
“Lo dico per lei, mi sembra davvero disperata”.
“Ti ho detto di piantarla!”.
“A volte sembra che non ci sia soluzione, che non ci sia scelta… ma abbiamo sempre una scelta”.
All’improvviso l’inquietudine si trasformò in rabbia. Elena strinse convulsamente il volante e nel giro di pochi minuti si ritrovò di nuovo a inchiodare in mezzo alla strada.
“Ho fatto un errore a farti salire. Scendi!”.
Il ragazzo la guardò con gli occhi sgranati.
“Ma io… non posso… lei non può…”.
La rabbia e il dolore compressi dentro di lei esplosero: “Fuori!”, strillò con violenza.
Il ragazzo si limitò a fissarla per qualche secondo, poi senza una parola aprì la portiera e uscì sotto la pioggia. Elena si toccò il volto e si rese conto di aver ricominciato a piangere. Rabbiosamente ingranò la marcia e ripartì. Guidò finché il ragazzo non fu una macchia scura nello specchietto retrovisore.
Mentre guidava, Elena sentì il respiro farsi affannoso, aveva i nervi a fior di pelle. L’ultima cosa che le serviva in quel momento era un ragazzo arrogante che le facesse la morale. Cominciò a singhiozzare convulsamente e cercò a tentoni il telefono cellulare nel portaoggetti tra i sedili, aveva bisogno di parlare con qualcuno, perfino sua madre sarebbe andata bene. Ma il telefono non c’era. Guardò sul sedile, sul tappetino, nelle sue tasche. Il cellulare era sparito e in un attimo capì.
“Quello stronzetto…”, mormorò.
Il ragazzo doveva averglielo rubato approfittando della sua distrazione. Fu tentata di tornare indietro e affrontarlo. Ma poi si disse che non era il caso di affrontare un ladro da sola, su una sperduta strada di montagna.
Subito dopo una curva, apparve alla sua destra una macchia di luce gialla, che in un paio di secondi divenne l’insegna di una stazione di servizio. Elena sospirò sollevata, sapeva che all’interno avrebbe trovato un telefono per chiamare la polizia. Così deviò dalla carreggiata ed entrò nel parcheggio: la sua auto era l’unica presente.
Scese infilandosi la giacca, non si vedeva nessuno, ma dentro l’edificio le luci erano accese. Si diresse a passo spedito verso l’ingresso e ci era quasi arrivata quando la porta sbatté sui cardini e un uomo ne uscì trafelato.
Elena iniziò a prendere atto della situazione quando vide che l’uomo stringeva una manciata di banconote e un coltello a serramanico nelle mani insanguinate. Ebbe solo un attimo di esitazione, poi i suoi nervi furono più veloci della sua mente, e si lanciò in una corsa disperata per salvarsi la vita.
Riuscì a fare una decina di passi prima di sentirsi afferrare i capelli e venire sbattuta sul cemento. Il fiato le uscì in un rantolo per la forza dell’impatto e la vista le si fece doppia. In un attimo il rapinatore le fu sopra, si guardò intorno per verificare se ci fosse qualcun altro nei paraggi. Non vedendo nessuno tornò a concentrarsi su di lei con un sorriso sbilenco e si chinò.
Elena tentò di spingerlo via, ma l’uomo la colpì con uno schiaffo, tutto iniziò a vorticare intorno a lei e sentì il vomito premerle contro la gola.
Le pareva tutto un terribile incubo, quella giornata assurda in cui si era alzata già colma di dolore stava per finire prima del previsto e nel peggiore dei modi.
L’uomo lasciò cadere il coltello e le aprì la cerniera della felpa, con l’altra mano le afferrò la gola stringendo sempre più forte. Forse era giusto così, pensò Elena abbandonandosi all’oblio, era la giusta punizione per aver voluto spegnere la vita che portava dentro di sé. Stava perdendo i sensi quando realizzò che almeno non sarebbe più stata costretta a prendere decisioni.
Una forma scura si avventò contro il rapinatore con un ruggito e improvvisamente Elena riuscì di nuovo a respirare. Ci mise un paio di secondi per mettere a fuoco la vista, appena in tempo per vedere il ragazzo, l’autostoppista che aveva fatto scendere poco prima, colpire il rapinatore con un pugno in pieno viso. Quest’ultimo rispose con un ringhio e i due rotolarono sul cemento, avvinghiati nella lotta.
Il giovane era più forte ed era chiaro che non era la prima volta che si batteva, il rapinatore era più pesante però e lo teneva schiacciato a terra col proprio peso. Il giovane piazzò una ginocchiata al mento dell’antagonista, che risuonò con uno schiocco nel silenzio, la testa del rapinatore scattò all’indietro e sputò un fiotto di sangue scuro. Ma non si arrese.
Il criminale barcollando allungò una mano dietro di sé per raggiungere il coltello e garantirsi un letale vantaggio. Ma non trovò niente. Tastava il terreno, senza distogliere lo sguardo dal ragazzo che si protendeva minaccioso verso di lui.
Il criminale avvertì solo una fitta terribile quando Elena con un ruggito gli conficcò la lama in una coscia con tutta la sua forza. Con un manrovescio l’uomo la rimandò distesa. Ma la distrazione gli fu fatale, il giovane lo aggredì da dietro serrandogli il collo e la testa in una morsa. Il volto del ragazzo era una maschera di ferocia primitiva, quando afferrò la testa e il mento dell’uomo con le mani, eseguì una torsione violenta e le vertebre cervicali dell’uomo si spezzarono con uno schiocco. Annaspò nell’aria per qualche secondo scosso dai tremiti e poi crollò a terra come una marionetta a cui sono stati tagliati i fili.
Elena cercò di alzarsi, ma fu travolta dalla nausea, si toccò il retro del capo e vide le mani sporche di sangue, in un secondo il ragazzo fu accanto a lei.
“Oddio sono ferita… deve essere grave…”, riuscì a mormorare lei.
“No, tranquilla, te la caverai …”, le disse lui accarezzandole la fronte con dolcezza.
Elena si sentì pervadere da una sensazione di calma. Il ragazzo odorava di buono, di un odore che le era familiare.
“Ma tu chi sei?”, gli chiese.
“Gabriel… mi chiamo Gabriel. Ora riposa però, non ti muovere”.
“Morirò Gabriel?”.
“No mamma, non morirai. Ora non parlare, con te ci sono io. Ci sarò sempre.
Prima di svenire, Elena fissò il ragazzo in quegli strani occhi bicolori e si domandò se avesse sentito bene l’ultima frase.
Meno di un’ora dopo riprese conoscenza nel retro di un’ambulanza con un infermiere che la medicava. Un funzionario di polizia le fece alcune domande e le fece i complimenti per aver saputo sopraffare e abbattere un criminale che pesava il doppio di lei. Era un caso emblematico di legittima difesa le disse. Considerato che l’uomo aveva assassinato gli anziani gestori della stazione di servizio, nessuno le avrebbe fatto problemi.
Quando lei gli parlò del ragazzo che l’aveva salvata, il poliziotto la fissò dubbioso: di una terza persona coinvolta nello scontro non si erano trovate tracce, nemmeno le telecamere di sorveglianza avevano ripreso nulla. Come se non fosse mai esistito.
Era il 14 luglio del 2022 quando Elena si sedette felice sul muretto che circondava il parco giochi, fissò il cielo azzurro senza nuvole e il sole le accarezzò il viso.
“Gabriel”, chiamò all’improvviso. “Scendi, dobbiamo andare”.
Un bambino esile con i capelli castani tutti arruffati scese dalla giostra olografica, aveva il viso corrucciato.
“Faccio un ultimo giro mamma!”, strillò.
“Va bene”, rispose lei. “Ma solo uno!”.
Il bambino annuì mentre un gran sorriso gli arrivava fino agli occhi, uno azzurro come il ghiaccio e l’altro verde come il profondo della foresta.
NEL CUORE DI QUALCUNO
di Stefano Cavazzuti
“Non c’è sentimento quando c’è dolore”. Così canta Leslie West in un famoso blues e in quel momento della mia vita non potevo che essere d’accordo con lui.
Stavo guidando da molte ore, ma non mi sentivo stanco, anzi mi sentivo vivo come non mi accadeva ormai da tempo.
Alla radio passavano “Beautiful day” degli U2, ma non era il mio caso. Per me quello era un giorno da incubo. Ero riuscito a perdere una donna che aveva provato in tutti i modi a farsi amare da me. Ci avevo messo un po’, poi avevo capito che l’amavo anch’io, ma per lei il mio tempo era scaduto e aveva chiuso la nostra storia.
Fuori tempo massimo.
Purtroppo mi era capitato spesso. Ora il dolore era molto forte e falsava ogni altro sentimento possibile. Per questo avevo deciso di darmi una scossa, per cercare di fare chiarezza nella mia vita.
Il mio istinto mi aveva suggerito di partire da solo, in auto, nel cuore della notte. Dovevo scacciare quella sensazione di vuoto che sentivo dentro. Sapevo solo che dovevo essere lontano da lei, da casa, prima che si facesse giorno, altrimenti quel viaggio avrebbe perso ogni significato o io avrei perso la mia determinazione.
Ma non stavo scappando, stavo cercando.
Intanto la radio trasmetteva “My last hello” di Steve Cave, la peggiore colonna sonora per cercare di non pensare a lei. Fu in quel momento che lo vidi. Si stagliava a lato di quel nastro d’asfalto che pareva fondersi con il cielo ancora scuro. L’insegna diceva “Bar da Carlo”. Sembrava ancora aperto.
Freccia a destra e dentro al parcheggio, deserto a quell’ora.
Entrai e mi trovai di fronte un uomo anziano, di sicuro Carlo, che dietro al bancone mi squadrò con un misto di curiosità e divertimento. Sembrava abituato a persone che si fermavano lì nel cuore della notte.
Stava ascoltando musica jazz, la tromba di Miles Davis faceva magie accompagnata dal sax di John Coltrane: “Kind of blue”, un capolavoro.
“Ciao ragazzo, dalla tua faccia direi che ti serve un bel whiskey”.
Aveva un tono di voce basso, in qualche modo cordiale ma con una punta di sarcasmo. Stava mescolando un mazzo di carte da poker con l’abilità degna di un prestigiatore. Accanto aveva un bicchiere vuoto e una bottiglia di Jack Daniel’s mezza piena. Non distolse lo sguardo in attesa di una mia risposta.
“Già, penso proprio che un po’ di alcol mi aiuterebbe”.
Mi appoggiai al bancone e l’uomo sorrise. Il sorriso di chi ha già capito che carta giocare se vuole fare sua la mano.
“Affari o turismo”, mi chiese mentre mi versava il Jack Daniel’s dalla bottiglia.
“Una donna”, dissi guardandolo negli occhi. Sostenne il mio sguardo, piegò la testa di lato e sembrò soppesare le mie parole.
“Problemi di cuore?”.
Il suo sorriso non si spense. Non avevo voglia di scendere in particolari e rimasi in silenzio, ma Carlo aveva già intuito la mia sofferenza.
“Le donne, ragazzo, sanno creare magie speciali, generare vite e soprattutto essere quelle che vogliono senza la minima paura di ciò che può essere nel bene e nel male. Chissà, magari anche gli uomini dovrebbero imparare”. Aveva parlato tutto d’un fiato, con un tono solenne ma complice.
Intanto il brano alla radio, “Trying not to love you” dei Nickelback, sembrava capitato al momento giusto.
Provare a non amarti. Facile a dirsi. Ma io non avevo mai capito molto di donne e adesso ancora meno.
“E molte sono anche, senza saperlo, portatrici sane di libidine, continuò ridendo.
Questo suo sentenziare a sproposito iniziava a irritarmi un po’, tanto più che non mi dava proprio l’impressione di poter essere stato un tombeur de femmes.
“Ma a te è mai capitato di soffrire per amore?”, azzardai ormai deciso a lasciarmi andare e accettare il confronto con lui.
“La sofferenza è causata dall’intelligenza, ragazzo, e più capisci certe cose e più vorresti non capirle per nulla al mondo”.
“Non mi hai risposto”, lo incalzai.
“Penso di avere amato solo una donna e ci ho fatto anche un figlio, ma non ho saputo o voluto rinunciare ai miei vizi e così l’ho persa”, disse senza più l’ombra di un sorriso.
“Avrei potuto accontentarmi, ma temo che così sarei solo riuscito a essere più infelice”.
Avrei potuto accontentarmi, aveva detto proprio così. In quel momento della mia vita quella frase mi suonò come un’autentica sfida.
Io che se avessi avuto la macchina del tempo non avrei avuto dubbi sul come sfruttarla, tornando indietro di qualche mese e dicendo subito a lei ciò che provavo. Invece quel vecchio mi diceva che avere amato e avere avuto un figlio, lui lo considerava un accontentarsi.
“Ma tu ti rendi conti di cosa vuol dire poter condividere la tua vita con qualcuna che ami, che ti ama e fare un figlio con lei?”.
Mi faceva incazzare quella sua filosofia da quattro soldi.
“A me sembra invece che ti sia mancato il coraggio di vivere”.
“Non è questione di coraggio”. Il suo tono era diventato più aggressivo. “Ci sono persone che non sono fatte per sposarsi e allevare figli e comunque tu non dovresti parlare di faccende che non ti riguardano”.
“Forse non mi riguardano, ma a me tu dai l’impressione di non aver voluto tentare per paura. Magari il coraggio l’hai annegato in quella cazzo di bottiglia di whiskey”.
Carlo strinse gli occhi e diventò paonazzo. Forse era da molto che qualcuno mostrava di non apprezzare i suoi discorsi da “vero” uomo.
“Ma tu chi sei e come ti permetti di giudicare la mia vita e soprattutto le mie scelte?”, mi urlò in faccia, stringendomi il pugno davanti e guardandomi dritto negli occhi.
Alcune gocce di saliva mi colpirono il viso. Sarebbe bastato un istante per iniziare prenderci a pugni.
Mi tremavano le mani, ma mi trattenni. Non ero lì per fare una rissa. Non in quel momento e non con lui. Ci fronteggiammo in silenzio per un istante poi lo vidi trasalire. Mi guardò negli occhi e un’ombra, forse un ricordo, passò nella sua mente.
“I tuoi occhi mi ricordano qualcuno e anche la tua grinta. Ma tu quanti anni hai?”.
“Cinquantasei. Sono nato il 14 novembre del 1959”.
Carlo impallidì e lo vidi deglutire mentre si riempiva il bicchiere. Bevve alla goccia.
Adesso vedevo davanti a me solo un vecchio, provato dalla vita, di sicuro consapevole della sua solitudine e di avere perso qualcosa di importante per sempre.
Mi alzai dal bancone e Carlo si avvicinò. Quando parlò non vi era più nessuna traccia di odio.
“Ricordati che ogni cosa va per la sua strada e anche se uno tenta di fare del suo meglio, certe volte è probabile che qualcuno si faccia male”.
Non volle i soldi per il whiskey. Ci stringemmo la mano e lui mantenendo la stretta per qualche istante mi guardò negli occhi e disse: “Ho fatto molti sbagli, troppi. Per me è tardi, ma forse una cosa buona l’ho fatta e spero di essere rimasto nel cuore di qualcuno”.
Mentre aprivo la porta per uscire, mi girai e ricambiando il suo sguardo riuscii solo a dire: “Grazie papà”.
Il sole stava per sorgere e io dovevo riprendere il viaggio, in senso opposto però. Tornavo a casa. Alla radio Steve Cave stava cantando “Step away”.
LA GUERRA DI UN BAMBINO
di Ivan Frascari
1944
Era il pomeriggio di una calda giornata di giugno. Avevo dieci anni, un fratello e una sorella e una gran voglia di andare a pescare. La guerra, a parte quella di papà che per fortuna era finita l’anno prima, rimaneva un’eco lontana. Nessuno ci pensava, nessuno ne parlava e l’unica vera preoccupazione era quella di sopravvivere nel migliore dei modi, magari con qualche pagnotta di pane bianco, una vera rarità, il cui profumo a fine cottura poteva riportare in vita i morti.
Quel giorno accompagnai papà a fare erba per i conigli. Improvvisamente udimmo degli spari e ci fermammo a guardare per cercare di capire cosa stesse accadendo. Dall’altra parte del fiume, dai prati sotto il Pigneto, alcuni uomini armati scendevano correndo e sparando in direzione del Pescale.
Non riuscivamo a vedere a cosa stavano sparando, ma tutto lasciava intuire che fosse un’imboscata dei partigiani ai tedeschi o ai fascisti.
Vedemmo un soldato tedesco sbucare sul prato sommitale del Catellaccio (oggi Rupe del Pescale). Attraversò di corsa il prato e cadendo tra pietre, salti di roccia e cespugli piombò nell’acqua dentro il gorgo scuro. Pensai che quel povero soldato sarebbe stato inghiottito da quelle acque scure e profonde. A noi bimbi non facevano altro che raccomandarsi di non avvicinarci a quelle acque. Ci raccontavano che il gorgo era senza fondo e che i suoi terribili mulinelli risucchiavano chiunque, senza speranza. Come sempre erano raccomandazioni bonarie che spesso venivano rafforzate a suon di scoppole.
Il soldato, con nostra grande meraviglia, riemerse a valle della buca e attraversato incolume il fiume riprese a correre. Non fece molta strada. Tre individui che non riuscimmo a identificare si fecero avanti, lo circondarono e lo trascinarono via.
Nel frattempo la battaglia era terminata, la valle era ripiombata nel silenzio e gli uomini armati erano scomparsi.
Scendemmo a casa rapidamente. Papà era silenzioso, del resto lo era sempre con tutti. Era buono, calmo, ma non amava parlare, se non con gli animali. Parlava con le vacche, le galline, i conigli e con gli animali del bosco. La cosa che mi stupiva di più era l’attenzione con cui lo ascoltavano, cercando di non perdere una sola parola.
Quando arrivammo a casa notai che, ad eccezione dello zio Ettore, erano tutti nel cortile che, con aria preoccupata, discutevano dell’accaduto. La mamma vedendoci arrivare ci venne incontro e scambiò un’occhiata scura con papà, dicendo: “Hai visto?”
Papà annuì, poi si diresse alla stalla senza profferire parola.
Mamma pensò bene di rianimare la situazione a modo suo e, sbrigativa come al solito, cominciò a sbraitare ordini perentori nei confronti di noi bambini. Ci spedì a lavarci nella pozza rinforzando l’invito con la dose quotidiana di scappellotti. Poi entrò in casa per preparare la cena.
A differenza di papà, la mamma era una donnetta piccola, svelta e sempre in attività. Era di poche parole e piena di risorse. Faceva di tutto e quello che non sapeva cercava di impararlo.
Più tardi a tavola, ascoltammo lo zio Ettore, che nel frattempo era tornato. Scoprimmo che era andato ad accertarsi di persona dell’accaduto. Papà lo guardò con fare interrogativo.
Ettore finì di rollarsi la sigaretta, poi disse: “Il tedesco lo hanno preso Enzo e gli altri, è un ragazzo giovane, italiano”.
“Italiano?”, chiese la mamma
“Italiano, credo dell’Alto Adige, parla italiano, lo hanno disarmato e questa sera lo portano su al comando partigiano di Cerredolo”.
“Ma ti hanno detto a chi hanno sparato?”, chiese papà.
“Sembra che ci fosse una camionetta con quattro o cinque soldati”, si interruppe un istante per prendere un tizzone dal focolare, accese la sigaretta e continuò: “Sembra che l’unico a salvarsi sia quello là che hanno preso” aspirò una lunga boccata di fumo “ma non so, non si sa molto di più”.
Papà rimase per un attimo a fissare nel vuoto, poi con tono pacato disse: “Non porta niente di buono”.
Cominciammo a mangiare.
La mamma aveva un’aria preoccupata e di tanto in tanto fissava papà. Lui affettava il pane poi il formaggio, quindi senza prestare attenzione agli altri mangiava. La zia ci disse che molto probabilmente quel ragazzo lo avrebbero ucciso.
Lo zio Ettore si girò verso noi bambini minacciandoci come faceva di solitamente dopo la prima bottiglia. Lui e papà erano fratelli e condividevano il carattere silenzioso, la passione per le bestie e la bontà. Per contro era piccolo e di corporatura più robusta e nervoso, era diretto e schietto. Il vino per lui era più che una passione, un amore vissuto fino all’ultima goccia.
Dopo cena, smamma prendeva dalla vetrinetta una bottiglietta misteriosa, imbeveva una pezzuola di cotone bianco del liquido che conteneva con cui si frizionava le mani.
Per noi bimbi era certo che la bottiglia contenesse una pozione magica e osservavamo quell’operazione in religioso silenzio.
La mamma soffriva di ulcerazioni alle mani causate dalla lisciva di cenere, utilizzata per fare il bucato.
Su consiglio di un’amica era andata dall’erbolaio di Baiso, un vecchietto misterioso (lo stregone) che viveva circondato da mazzetti di erbe, oli, balsami e unguenti magici, nel castello di Baiso. Preparava pozioni miracolose in grado di curare da ogni malanno. Le aveva preso le mani, controllate, “segnate” e frizionate con la pozione misteriosa.
La visita era costata una pagnotta di pane bianco e mamma spesso ci ricordava la gioia con cui l’uomo l’aveva presa, abbracciandola e annusandone soddisfatto il profumo, ringraziando commosso.
Finita l’operazione delle mani mamma, si girò seria verso di noi e accompagnando la voce con un cenno della mano disse” A letto”, e conoscendola, tanto ci bastò per prendere la direzione del letto.
La mattina dopo, papà, mamma e gli zii andarono in Campo Grande a mietere il grano.
Dimenticavo, la nostra casa, denominata “Casa Romani”, era posta in alto sotto il versante boscoso del Monte dell’Appendice, al termine della strada che saliva dalla Cavriana. Da lì si dominava l’ampia conca chiusa a nord dalla costa del Monte della Croce. In basso la stretta del Pescale, che con le sue alte rupi rocciose racchiudeva il Secchia. Il fiume era un alternarsi di correnti rapide e spumeggianti, lame e piane dove l’acqua rallentava quasi a fermarsi. Là in mezzo, il Gorgo Scuro.
Campo Grande era adagiato a mezza costa sulla dorsale che degradava dal monte dell’Appendice fino al Secchia. Nascosto tra i boschi di Roverelle e Carpini era un luogo sospeso nel tempo, protetto dal mondo circostante.
La mietitura veniva fatta a mano con il falcetto, falciando le spighe a mazzetti. La parte inferiore delle piante non veniva toccata creando un tappeto ispido in grado di favorire una successiva ricrescita di erba da fieno. Questa pratica era resa necessaria dalla povertà e aridità dei campi di collina e permetteva di usufruire di un ulteriore sfalcio di erba, bene prezioso per alimentare il bestiame nei lunghi mesi invernali.
Quella mattina arrivarono i partigiani, scesi a valle sul richiamo della battaglia del giorno prima.
Erano uomini giovani con fare un po’ sbruffone e un po’ marziale, vestiti in modo folcloristico, alcuni con un grande fazzoletto rosso al collo. Armati di fucili, pistole e bombe a mano.
Erano gentili con noi bambini mentre discutevano animatamente con i grandi. Parlavano di occupazione, di ingiustizia, di comunismo e democrazia. Ci raccontavano di un’altra Italia, che doveva venire, tutte parole che per noi bambini erano difficili da capire.
Mamma invece capiva molto bene, capiva soprattutto la continua richiesta di cibo che voleva dire più fame per noi. Si arrabbiava, ma poi diceva che erano ragazzi, che anche loro avevano una mamma e lei da mamma non poteva non aiutarli. Diceva che erano ragazzi che avevano scelto la strada più difficile. Ne avevamo visti passare parecchi di quei ragazzi, soprattutto di notte. Fuggivano dalle città verso la montagna e noi li aiutavamo per quello che ci era possibile senza però ben comprendere e capire dove erano diretti e a fare cosa.
I partigiani si erano fermati tutta la giornata, piazzando una mitragliatrice nel cortile puntata verso la strada sottostante, dove avevano lasciato un posto di blocco.
Papà e lo zio non erano per nulla contenti della situazione. Si lamentavano perché sparavano “all’aria” in continuazione e perché non facevano nulla per mascherare la loro presenza. Sapevano che questa imprudenza avrebbe avuto delle pessime conseguenze.
Come erano arrivati così se ne andarono, riprendendo la via della montagna al calar della sera.
La mattina successiva, di buon ora, papà, mamma e gli zii tornarono in Campo Grande per terminare il lavoro di mietitura per poi proseguire in un altro prato di nostra proprietà dietro la costa del monte della Croce.
Noi bimbi a casa eravamo completamente assorbiti dalle nostre occupazioni ludiche.
Io ero impegnato nella realizzazione di piccoli mattoncini d’argilla, e mai avrei mai immaginato che quella sarebbe diventata la mia professione futura. Lavoravo con molta perizia cercando di fare le cose per bene, da grande. L’unica cosa che riusciva di tanto in tanto a distogliermi dalla mia occupazione era il Secchia. Guardavo le acque scorrere veloci poi ad occhi chiusi ne sognavo i grandi pesci che vi nuotavano tranquilli e che avrei volute catturare. Vicino a me c’era la cagnetta di famiglia, la Virgola, che non mi perdeva un istante di vista.
In un angolo del cortile, vicino alla grande Quercia, stava mio fratello indaffarato con le formiche. Poteva stare ore straniato dal mondo circostante, non che non fosse attento a quello che succedeva ma in un qualche modo riusciva a dare attenzione solo a quello che in quel momento lo interessava. Questo suo modo di essere rappresentava un bene prezioso per tutti perché in caso contrario erano urla di pianto che potevano protrarsi per ore e ore. Anche nostra sorella, la più piccola della famiglia, giocava in tutta solitudine, con la sua bambolina di pezza e paglia che lo zio Ettore le aveva costruito.
Parlottava con se stessa mimando la mamma. Come tutte le donne, anche se piccola, era attaccabrighe e invadente, ma quando giocava era estranea alle cose di questo mondo.
Fu nel primo pomeriggio che udimmo un nutrito fuoco di armi, colpi di fucile e mitraglia. I proiettili passavano fischiando sopra le nostre teste andando a conficcarsi nei tronchi degli alberi con schiocchi secchi.
Ci riparammo dietro la casa, poi con molta paura e altrettanta curiosità, ma molto cautamente cercai di capire cosa stesse succedendo. Vidi di là dal fiume molti soldati e mezzi militari. “I tedeschi!”, mi lasciai sfuggire. Nessuno rispose salvo la Virgola con un lungo ululato dettato, forse, dalla paura degli scoppi.
Li vidi guadare il fiume e dividersi in due colonne prima di scomparire nella vegetazione.
Dopo qualche tempo vidi una colonna di soldati che risaliva la costa del monte della Croce. Salivano silenziosi e cauti in fila indiana. Quando arrivarono nei pressi della casa di Enzo, echeggiò il rumore di quella che mi sembrò una breve battaglia.
Urla, spari e ordini. La voce dura e gutturale dei tedeschi era inequivocabile e metteva i brividi solo a sentirla. Dopo un lungo silenzio udimmo dei forti scoppi e vedemmo una colonna di fumi alzarsi dalla casa che fu rapidamente avvolta dalle fiamme. Quel fumo nero denso, il primo che vedevo, mi sarebbe poi tornato alla mente qualche mese dopo di fronte all’incendio di Castellarano. Era un segno premonitore di una tragedia ben più grande che avrebbe colpito un intera comunità.
La cagnetta cominciò a ringhiare e ad abbaiare e improvvisamente il cortile si riempì di soldati tedeschi, risaliti dalla strada. Mi sembravano tutti grandi e grossi, armati fino ai denti. In un attimo avevano circondato la casa. Mio fratello, alla loro vista, iniziò a piangere, mentre la sorellina si avvicinò interessata ad un soldato cercando di attirare la sua attenzione. Io avevo paura.
Da vicino, non avevano facce cattive, qualcuno si lasciò addirittura scappare un sorriso bonario e una carezza nei confronti di noi bambini. Un graduato prese in braccio mio fratello e cominciò a coccolarlo per farlo smettere di piangere. Dimenticavo, in famiglia avevamo tutti i capelli neri salvo lui che era biondissimo e nei mesi successivi ci saremmo dovuti abituare spesso a quella situazione. I tedeschi rudi soldati, padri di famiglia, venivano a trovarlo e a giocare con lui, portando caramelle e cioccolata. Anche a loro mancava la famiglia.
Poco dopo arrivò scese dal monte la seconda colonna di soldati che spingevano avanti con le armi puntate papà, mamma, gli zii e un ragazzino di Castellarano.
Si fece avanti un ufficiale dalla divisa perfetta, alto magro e con fare nervoso. Portava un paio di occhialini, con cui ci guardava con fare superiore e marziale, e un frustino che batteva ritmicamente sugli stivali neri e lucidissimi. Chiamò vicino a sé un ragazzo in camicia nera e gli diede una serie di ordini. Questi si voltò verso noi tutti e scandendo le parole disse: “Ieri qui c’erano in Banditi quindi anche voi siete dei banditi. Le donne e I bambini possono restare mentre tutti gli uomini” e li indicò uno ad uno con il dito “devono venire con noi al comando per l’interrogatorio”.
Gli uomini si guardarono l’un l’altro preoccupati. L’unico impassibile era il papà, che teneva fede alla sua calma proverbiale. Fu in quel momento che mia madre ci chiamò vicino, poi indirizzandosi all’ufficiale tedesco inizio a piangere e a supplicare: “Ma come posso fare a portare avanti la famiglia con tre figli piccoli da sfamare, se mi portate via anche il loro padre? Come faccio a governare le bestie?”. Parlò in tono di supplica, ma con voce ferma e decisa. Si strinse ancora di più a noi prendendo in braccio mio fratello, che nel frattempo aveva ripreso a piangere.
Ci fu un attimo di silenzio, poi l’ufficiale si girò verso l’interprete e lui gli tradusse la supplica.
Girandosi verso la mamma, chiese: “Chi essere patre pampini?”.
Il papà fece un passo avanti.
“Tu rimanere con pampini, tua famiglia afere bisogno di te”.
Il papà rimase impassibile, ma si poteva leggere nei suoi occhi la gioia che la possibilità di rimanere nella famiglia gli aveva procurato.
L’8 di settembre del ’43 lo aveva trovato con il suo reparto a Napoli e lui, a differenza di molti suoi compagni che avevano la vita nel bombardamento alleato della stazione, assieme a un commilitone di Sassuolo era riuscito a rientrare dopo un lungo viaggio avventuroso attraverso l’Italia.
L’interprete disse che dovevano perquisire la casa e disse agli uomini di procurarsi il cibo e il necessario per la notte. Fu in quel frangente che venne fuori tutta la freddezza dello zio Ettore, il quale, prima coprì con il suo corpo il fucile da caccia appoggiato in un angolo della cucina, mimetizzato dalla spessa coltre di fuliggine che rivestiva le pareti. Poi fu sveltissimo nel nascondere l’arma sotto il pagliericcio del letto che i soldati avevano appena perquisito.
La colonna dei soldati si ricompattò attorno ai prigionieri e iniziarono a ridiscendere in valle.
Guardai lo zio Ettore che ci salutava con il suo sorriso solito, senza tradire il minimo cenno di paura, ammonendoci che in sua assenza dovevamo fare a modo.
Lo avremmo rivisto solo nel settembre del 1945, al rientro della lunga prigionia in Germania, dove era stato deportato dopo essere stato rinchiuso per parecchi mesi nel campo di concentramento di Fossoli.
Non era per nulla cambiato, era solo più magro e ci raccontò che nonostante la differenza di lingua, era riuscito a parlare anche con le vacche tedesche.
Quel giorno la guerra era cominciata anche per noi.
NOTA
La storia prende spunto dai ricordi di mio padre. Non ha pretese storiche e non è stata oggetto di verifiche documentali. Ho ascoltato, miscelato e assemblato versioni ogni volta leggermente diverse, fatto del tutto normale visto la distanza temporale in cui sono avvenuti i fatti narrati. Spero solo di essere riuscito a trasmettere un briciolo delle sensazioni forti che si vivevano in quel periodo storico, quando alla tragedia della guerra si univa la necessità quotidiana di sopravvivere.
TRE GIORNI
di Angela Gibellini
Dormire era stato quasi impossibile, le vibrazioni del treno in corsa erano insopportabili. Per tutto il tempo avevo temuto un controllo dei bagagli da parte della polizia, ma non era venuto nessuno. All’alba solo un controllore mi aveva bussato per chiedermi il passaporto visto che ci stavamo avvicinando a Parigi. Tre giorni e sarebbe finito tutto, il primo era già passato.
In stazione a Gare de Lyon c’era molta polizia, come mi aspettavo. Avevo l’impressione di essere osservata da tutti. Ero una donna di mezza età, non particolarmente appariscente, con uno zaino in spalla, come tanti altri turisti, ma mi sembrava di avere gli occhi addosso di tutti i passanti.
Con la metropolitana arrivai in rue du Temple, dove avevo prenotato un piccolo monolocale.
Sistemai lo zaino in cassaforte e come codice utilizzai la data di nascita di Orlando, che probabilmente in quel momento stava dormendo a casa nella sua cuccia.
Erano ancora le nove del mattino e andai a fare colazione.
“Penso che a Parigi tu sia già stata in una vita precedente, per questo a volte ti piace e a volte non la sopporti. Ci sono zone in cui sei stata felice e in altre hai sofferto”. Mi diceva così Andrea vent’anni fa e io non capivo se veramente credesse a quelle storie.
Alla fine si era trasferito a vivere nella Ville Lumière con chissà quale altra donna. Pensai di mandargli un messaggio, solo per fargli sapere che ero in città. Per depistarlo dalle notizie negative che di sicuro aveva avuto a proposito della mia vita, per fargli credere che ma la passavo brillantemente. Tanto non ci parlavamo da vent’anni, probabilmente aveva anche cambiato numero. Tentennai un po’ e l’attimo prima di pentirmene inviai il messaggio.
Non ricevetti subito risposta. Mangiai il mio croque monsieur lentamente, guardando i passanti dalle vetrate della brasserie.
Passeggiavo per la città che amavo tanto, ma non riuscivo a vederla veramente, troppi pensieri, dubbi e risentimenti. Quando mi decisi a guardare il telefono, trovai la risposta inaspettata.
“Ciao Cristina, che bella sorpresa. Stasera possiamo cenare insieme. Mandami l’indirizzo dell’hotel ti passo a prendere, non accetto un rifiuto”.
Potevo aspettarmelo, Andrea era sempre stato un po’ teatrale. Un po’ troppo. Non avevo voglia di un tuffo nel passato, con un uomo che avevo quasi del tutto dimenticato e per il quale non provavo più nulla, per non parlare della tensione del momento, ma ero lì da sola e Parigi così minacciata, anche da persone come me, mi faceva sentire ancora più sola. Mi sarei distratta almeno per la serata. Accettai.
Sotto la doccia mi inventai una lista di bugie per rispondere a ogni possibile domanda.
In questi vent’anni le cose erano cambiate molto per me, non ero più quella di prima. L’ultima persona alla quale volevo raccontare i miei fallimenti era proprio Andrea. La cosa che mi dava più fastidio era che lui non era rimasto un eterno Peter Pan come tutti immaginavano, invece io che avrei dovuto spaccare il mondo avevo fallito in tutto. Non potevo spiegargli per quale motivo ero a Parigi. Non potevo neanche dirgli che lo stavo facendo perché a malapena avevo avuto i soldi per pagare il funerale di mia madre, che tra l’altro, con la sua malattia era stata la mia unica attrazione da sei anni.
Alle 20.40 mi avvertì con uno squillo che era arrivato.
L’appartamento dove alloggiavo aveva un cortile interno lungo circa 120 metri con fiori ai lati, sulla strada c’era un cancello in ferro battuto a delimitarne l’accesso al cortile. Dal cancello lo intravedevo in lontananza in piedi. Era sempre la sua sagoma asciutta con il suo metro e novanta di altezza. Man mano che mi avvicinavo lo vedevo sempre meglio, subito notai i capelli. Vent’anni prima li portava da alternativo, lunghi fino alle spalle. Ma ora, grigi e a corona intorno al viso, lo facevano sembrare un uomo ordinario. Poi i lineamenti del volto, più marcati con il viso stanco.
Ci scambiammo un bacio sulla guancia ma eravamo imbarazzati. Dicevamo cose scontate senza guardarci per più di qualche secondo.
Il disagio passò quando ci sedemmo al ristorante, allora riconobbi il suo sguardo vagamente malinconico, a dispetto dei suoi soliti comportamenti mi sembrava di scorgere una tristezza rassegnata. Facevo fatica a concentrami su quello che mi diceva perché improvvisamente non facevo che avere avere flashback su ogni tipo di situazione vissuta con lui. La cosa strana era che erano tutte sensazioni positive che non ero affatto abituata a ricordare.
“Allora, prima di tutto dimmi cosa fai qui a Parigi da sola”.
“Sono venuta a portare della droga a qualche malvivente, ma non so se si tratta di cannabis o cocaina. Sai, io ho bisogno di soldi e dopo gli attentati hanno aumentato controlli e sistemi di sorveglianza. Hanno bisogno di persone insospettabili, con passato irreprensibile che si occupino di piccole consegne, così eccomi qui”.
“Ma per piacere, non scherzare”.
“Hai ragione, sono venuta a vedere una mostra e a fare un giro, avevo bisogno di distrarmi un po’”.
“Da una relazione? Vivi con qualcuno?”.
“Ho divorziato qualche anno fa, i figli non sono arrivati, così vivo con Orlando, il mio gatto che è il compagno perfetto”.
“Immagino…”.
“E tu come ti trovi qui in città?”.
“Ti sembrerà strano, ma mi manca Modena. Parigi è una città molto difficile e adesso ci mancavano solo gli attentati. A volte ho paura, soprattutto per mio figlio. Ha solo sette anni e non è questo clima che vorrei per lui”.
Non riuscivo a smettere di guardargli le mani, grandi ma proporzionate, così familiari erano una delle cose che mi piaceva di lui.
“Andrea, ti ricordi quando siamo andati al cinema a vedere Pulp Fiction? Abbiamo aspettato per un scacco di tempo che uscisse a Modena”.
“Eccome se mi ricordo, e dopo siamo andati in quella birreria a ubriacarci e non facevamo altro che parlare del film”.
Mi sembrava molto cambiato. Avevo l’impressione che la sua teatralità giovanile si fosse spenta o chissà, forse si era sbriciolata assieme a qualche speranza.
“E cosa fai Cristina? Sei felice?”.
“Tu piuttosto, mi hanno detto che lavori nel settore vinicolo e ti sei laureato”.
“Sì, è vero”.
“Hai una splendida vita”.
Mi guardò come se si stesse chiedendo se lo prendessi in giro, così rilanciai:
“Dai Andrea, non lamentarti, a me le cose non sono andate così bene”.
«Almeno la tua è una vita vera».
Cercai di cambiare discorso ma vidi che lui non ne aveva nessuna voglia.
«Andrea, tutto cambia, noi cambiamo e come vedi cambiano anche le città”.
Finalmente riuscii a parlare d’altro e continuai a ricordare con lui situazioni buffe della nostra storia che allora non mi erano sembrate poi tanto divertenti.
Parlava della nostra relazione in modo entusiasta, avevo l’impressione che ne avesse un ricordo alterato in positivo e non me lo sarei aspettata. Io, a differenza di lui, avevo sepolto tutto sotto strati e strati di cenere. Eppure, quello da cui cercavo di scappare mi si ripresentava sempre. In ogni circostanza. Avrei dovuto ricordarlo e evitare di uscire con Andrea. Invece gli chiesi di accompagnarmi a camminare anche se si stava facendo tardi. Probabilmente la moglie lo stava aspettando, lui disse solo che era contento di stare ancora fuori.
Ci fermammo a bere in un baretto con i tavolini all’aperto e tutto il vino che avevamo bevuto iniziò a farci diventare, anzi, a far diventare soprattutto me piuttosto intraprendente.
“Ho una seconda attività, chiamiamola così. Dipingo tele a tecniche miste”, disse lui
“Sì, sei sempre stato bravo, ricordo bene. Voglio vedere i tuoi quadri”.
“Va bene, domani possiamo andare nel mio studio”.
“No, domani non posso, ho un impegno. Andiamoci adesso”.
“Dici sul serio? È lontano da qui, è molto tardi, sei sicura?”.
“Per me va bene”.
“Sei sempre la stessa”.
Quell’affermazione mi colpì come un pugno nello stomaco e mi si incendiò il viso.
Ci mettemmo mezz’ora ad arrivare nella zona di Marais. Salimmo in una mansarda coni i tetti spioventi, con tanto di lucernario. L’ambiente più parigino che potrò mai ricordare.
Quando vidi i quadri ne fui quasi innervosita. Il talento di Andrea avrebbe potuto essere una lama conficcata nel mio orgoglio. Ma i volti che dipingeva avevano sguardi così profondi che riuscii solo a sentirmi in colpa per averlo sempre considerato un uomo superficiale.
Come se avesse intuito le mie sensazioni contrastanti si affrettò a dirmi: “Non starci troppo a pensare, questi quadri non interessano a nessuno”.
Per un attimo pensai alla giustizia e al destino, al gioco che si divertono a fare insieme nella vita delle persone. Ma non era il momento giusto per questi pensieri.
Andrea si avvicinò a me, forse raschiando dal fondo della sua vecchia teatralità tentò di raccontarmi una storia a proposito di due sistemi che se interagiscono tra loro per un periodo di tempo, poi si condizionano a vicenda anche a distanza di anni luce. Ma a quel punto, gli stavo già accarezzando il viso e quando lui mi baciò io mi lasciai andare tra le sue mani già conosciute. Ci riconoscemmo immediatamente.
Anche quella notte dormii pochissimo, avevo paura di non arrivare puntuale alla consegna. Erano le nove e Andrea dormiva ancora. Quando mi alzai per vestirmi si svegliò di scatto.
“Dove vai? Ti accompagno”.
“Ho prenotato l’ingresso alla mostra con fascia oraria e voglio essere puntuale e poi ho bisogno di stare un po’ sola”.
“Come vuoi, ti accompagno al miniappartamento”.
Per tutto il tempo che passammo in auto restammo in silenzio. Ci salutammo ma io non lo guardai direttamente negli occhi.
Presi lo zaino dalla cassaforte e alle dieci e trenta mi trovai al numero 4 di rue Etienne Marcel. Lì in un portone che dava accesso a svariati appartahotel digitai il codice nella serratura. Poi, una volta entrata nel corridoio trovai come mi avevano scritto sulle istruzioni, una serie di cassette di sicurezza. Servivano per la consegna di chiavi e oggetti ai clienti dell’hotel ma io usai la più grande, la numero 10 per lasciare il pacco con un secondo codice. Mi avevano avvertita che qualcuno avrebbe sorvegliato la “situazione” e avrebbe ritirato il pacco poco dopo. Passavano delle persone e dovetti aspettare fuori qualche minuto ma in poco tempo era tutto finito. Uscii in strada senza guardarmi intorno. Era stato tutto molto semplice e io ero ancora la stessa di prima. Non era cambiato nulla.
Andai in stazione in taxi perché volevo gustarmi la città e alla domenica il traffico di Parigi era inspiegabilmente assente.
A differenza del viaggio di andata, il treno era nuovo, tutti gli interni color grigio ghiaccio e odore di plastica di recente fabbricazione. Mi sistemai nella carrozza ma questa volta non ero sola, c’era una donna sui cinquant’anni, dai lineamenti pensai di provenienza dell’Est. Non era cordiale, aveva voglia di stare per i fatti suoi. Meglio. Presi il telefono e cercai nella rubrica il numero della mia vicina di casa che aveva “in gestione” Orlando per quei tre giorni. Il pensiero delle sue fusa mi faceva già sentire a casa nella mia vita reale. Mentre scorrevo i contatti nella rubrica, mi arrivò un messaggio di Andrea. Lo avrei letto dopo pensai. Per non parlare davanti alla donna un po’ ostile, andai in corridoio.
“Ciao Isa, ti chiamo per sapere come sta Orlando, io sono già in treno, sto tornando”.
“Cristina, non so come dirtelo ma Orlando è scappato venerdì. Non è più tornato. L’abbiamo cercato dappertutto. Credo che non lo rivedremo più, mi dispiace”.
Riattaccai e vidi che la mia compagna di viaggio mi guardava curiosa dal vetro, allora mi voltai verso il finestrino, ma il treno correva così forte che riuscii a vedere solo delle sagome allungate che oscillavano in una specie di danza ripetitiva e ostinata.
RICORDI SOMMERSI
di Jonathan Raponi
La nave attraccò in perfetto orario al porto dell’isola di Skiatos. Giunse a destinazione nel tardo pomeriggio, mentre i turisti lasciavano le spiagge. La nave era semi-deserta, segno che la stagione estiva non era ancora cominciata. Durante la fase di attracco, sul ponte della nave un uomo in piedi appoggiato alla ringhiera osservava il porto.
Era giunto sull’isola in cerca di risposte e di nient’altro. Indossava un paio di pantaloni cargo e una polo stropicciata. Si distingueva dal resto dei passeggeri perché non era accompagnato da una valigia, ma portava soltanto un piccolo borsone di pelle a tracolla.
Scese per ultimo e si perse nelle vie strette della città vecchia. Camminava con passo svelto e sicuro come se conoscesse quelle strade dalle case bianche tutte uguali.
Entrò in un piccolo albergo affacciato alla strada principale. Non fece fatica a trovare una stanza, l’hotel era poco più di una bettola, ma il locandiere gli sembrò uno che sapesse il fatto suo.
“Calimera”, esordì il proprietario alla reception, senza neanche alzare lo sguardo dal giornale aperto sopra le ginocchia.
“Rimarrò solo qualche giorno”, disse il turista lasciando una somma di denaro spropositata sul bancone. “Questi dovrebbero essere più che sufficienti, possiamo anche fare a meno del passaporto, vero?”.
L’albergatore lasciò scivolare il denaro nel cassetto senza dire una parola, ma il silenzio sigillò l’intesa tra i due.
“Mi chiedevo una cosa, c’è un italiano arrivato sull’isola da poco che può farmi da guida in questi giorni?”, chiese osservando la hall impolverata.
“Non ci sono molti italiani che lavorano qui. Ma sulla collina c’è una taverna. Da un po’ di tempo ci lavora uno straniero. Si fa chiamare l’americano, ma non l’ha mai data a bere a nessuno. Quello è italiano come la pizza”, rispose il locandiere.
“Lei come fa a dirlo?”.
“Italiano e greco. Stessa faccia, stessa razza”, disse il locandiere senza aggiungere nient’altro, come se non ci fosse bisogno di una conclusione.
Il turista entrò nella taverna che era quasi sera. Si sedette e cenò con tutta calma. Ordinò i piatti indicando sul menù un nome di cui non conosceva il significato neanche lontanamente.
A cena finita si diresse verso il ragazzo al bancone: “È lei che chiamano l’americano?”
“Sì, sono io, lei è un turista vero?”.
“Non mi sembra americano, il suo accento la tradisce”.
“Sono italiano, ma ho vissuto in America per qualche anno”.
Il turista scrutò con dovizia il suo interlocutore, cercando di capire cosa facesse li. L’americano sembrava un giovane di bell’aspetto, doveva avere poco meno di trent’anni. L’abbronzatura e i peli schiariti sulle braccia dicevano che viveva sull’isola tutto l’anno, non solo per la stagione estiva. Aveva profonde occhiaie e mani delicate. Occhi chiari sotto le sopracciglia scure e definite, ma con uno sguardo dimesso e furtivo di chi non alza mai lo sguardo per guardare negli occhi le persone.
Un sorriso stanco e forzato di chi è stato molestato dalla vita in giovane età.
“Qui sull’isola da solo? Non ha famiglia?”, chiese il turista.
“I miei sono morti quando ero un ragazzo, sono abituato alla solitudine ormai”, rispose continuando a lucidare il bicchiere che teneva in mano.
Il turista si accorse subito della diffidenza. Non sembrava qualcuno che avesse voglia di parlare, perciò non perse tempo.
“Mi domandavo se domani mi potrebbe accompagnare a fare un giro sull’isola”.
“Mi spiace ma io lavoro in una taverna, non sono una guida, le posso consigliare una persona che…”, non gli lasciò il tempo di finire la frase.
“Ma io voglio un italiano, anzi un italiano che vive qui”, incalzò il turista frugando nei pantaloni.
Infilò con due dita una banconota da 500 euro nel taschino del barista.
“Ho una piccola barca, le porto a fare un giro domani mattina se vuole, ma dovrò essere di ritorno entro il pomeriggio”, sentenziò guardando il turista negli occhi facendo finta di non notare la banconota infilata nel taschino.
“Mi sembra perfetto, non vada a letto tardi, domani mattina avrà molto da raccontarmi”, disse il turista alzandosi dalla sedia.
Mentre usciva dalla taverna, una foto appesa alla parete catturò la sua attenzione.
La foto riprendeva una spiaggia deserta al tramonto. Era una foto come tante altre, ma un piccolo particolare lo colpì. Il fotografo aveva catturato una figura femminile sullo sfondo. La donna era di spalle, portava lunghi capelli neri, un fisico esile. Sembrava una casualità. In una fotografia di una spiaggia al tramonto, erroneamente era stata immortalata una donna in lontananza.
Il turista sorrise di un ghigno beffardo. Sapeva di essere nel posto giusto.
L’americano arrivò al porto al sorgere del sole. Aveva passato una notte inquieta. Tante cose dell’incontro della sera prima non l’avevano convinto.
Raggiunse la banchina mentre alla spicciolata i pescatori tornavano dalla nottata passata in mare.
“Che ci fai qui così presto?”, gli chiesero uno dopo l’altro. Si limitava a rispondere con un “Calimera”, accompagnato da un sorriso di circostanza.
Realizzò che rimanere lì per l’appuntamento fosse una pessima idea. Si alzò di scatto e prese a incamminarsi verso la collina. Il pensiero di non rivedere più l’uomo conosciuto la sera prima, lo strinse in una abbraccio rassicurante. Le sue speranze si infransero vedendo il turista arrivare verso di lui.
Accese il motore della piccola imbarcazione. Fecero una piccola pausa a fare il pieno all’entrata del porto e prima delle 8 erano già fuori dagli scogli. L’americano manovrava il timore, fissando l’orizzonte mentre il turista aveva preso posizione a poppa.
Le ore passavano lente e soffocanti. Nessuno dei passeggeri spiaccicava una parola e le poche parole erano sempre di circostanza e misurate.
“Come mai a Skiatos?”, la domanda dell’americano sortì l’effetto desiderato.
“Non sono mai stato un viaggiatore, il mio lavoro non me lo permetteva”.
“Che lavoro fa?”, domandò l’americano.
“Sono un militare, lavoro e vivo in una caserma e mi occupo di addestrare le reclute”.
La risposta confermò i brutti presentimenti del giovane. Cercò di non fissare il turista negli occhi e si meravigliò di rimanere in quel momento così lucido e razionale.
Si costrinse a fissare l’orizzonte vuoto davanti a sé: se solo avesse incrociato per un momento lo sguardo dell’uomo dietro di lui, avrebbe lasciato trasparire un terrore incontrollabile.
Mise al minimo il motore e aspettò che la barca si fermasse vicino a un’insenatura.
Raggiunse il turista a poppa, cercando di fissare lo stesso punto all’orizzonte con lo sguardo.
“Non mi ha risposto, come mai lei è qui a Skiatos oggi?”, la domanda gli uscì con un tono che sembrò quasi seccato.
“Qualche anno fa sono stato trasferito in un’altra città per lavoro. Ero solo, non avevo né famiglia, né amici. Ho conosciuto una ragazza, più giovane di me, anche lei in città da poco, trasferita per lavoro. Pochi mesi dopo ci sposiamo, ma le cose non funzionano. Un bel giorno torno a casa e non la trovo più. Convinto che si trattasse di uno stupido capriccio, aspetto il suo ritorno a casa. Passano le settimane e i mesi ma di lei nessuna traccia”.
L’americano ascoltò con attenzione e replicò: “Cosa ha pensato non vedendola tornare?”.
Il turista alzò gli occhiali scuri e fissandolo negli occhi rispose: “Ho pensato che fosse andata con il primo che passava. Mi fa quasi pena poverino, se ha tradito me, sicuramente avrò tradito anche lui”.
I due si ritrovarono vicini l’uno all’altro, appoggiati alla ringhiera in ferro della barca.
Con gli avambracci che si toccavano, potevano sentire l’odore di sudore l’uno dell’altro.
“E come mai pensa che può trovarla qui?”, chiese l’americano con un filo di voce, quasi sussurrando.
“Passano più di due anni e un bel giorno mi decido a sbarazzarmi della robaccia di mia moglie. Lancio tutto nel cassonetto, ma un foglio cade in terra. Uno schizzo fatto a carboncino della sagoma di due persone che camminano sulla spiaggia da dietro, nell’angolo in basso a destra la scritta Skiatos. Non sapevo neanche l’esistenza di quest’isola piccola e puzzolente prima di vedere quel disegno fatto da mia moglie”.
Ognuno studiava i movimenti dell’altro, pronto a individuare ogni minimo segnale di indecisione nel tono della voce o nei gesti. Erano come due pugili al suono della campana del primo round.
“Perciò spera di trovarla qui?”, chiese l’americano
“Perché no? L’isola è davvero piccola e poi non ci sono tanti italiani sull’isola. Magari qualcuno sa qualcosa”, rispose scandendo l’ultima frase in tono autoritario.
“Se cerca sua moglie dopo due anni, vuol dire che l’ama ancora. Dev’essere una persona molto romantica”
“Amarla ancora? Certo che no!”, urlò con disprezzo. “Voglio solo darle una lezione, quale donna abbandona il marito senza neanche una parola?”. La frase aveva un sapore di sentenza, tanto che nessuno dei due osò dire nient’altro.
Il sole era alto e il caldo ormai insopportabile.
L’americano sentì il corpo rattrappirsi, mentre un brivido gli corse lungo la schiena fino a togliergli ogni energia. Le gambe ormai molli e inspiegabilmente immobili erano sul punto di cedere tanto che ebbe paura di stramazzare a terra. Si diresse al timone, accese il motore e partì velocemente verso il mare aperto alzando una scia di schiuma.
Quando i contorni dell’isola erano ormai lontani, spense il motore e sparì per un attimo sottocoperta. Ne uscì qualche istante dopo con due birre fredde. Sbatté la porta dello scafo energicamente come a voler seppellire lì sotto ogni questione lasciata in sospeso. Porse una birra all’ospite e senza dire una parole ne bevve un gran sorso.
“Avanti, facciamola finita”, sentenziò l’americano con voce decisa. “Basta una spinta fuori dalla barca ed è tutto finito. Non sei qui per questo?”.
“Allora sai chi sono, vero?”, disse il turista accennando a un sorriso che sembrava sincero.
“Certo che lo so. Ogni giorno ho cercato di immaginare il tuo viso. Sei un bastardo. Un uomo che dovrebbe sparire immediatamente dalla faccia della terra. Un uomo che ogni, sera tornando a casa ubriaco fradicio, riempie di botte sua moglie lasciandola per terra. Il mare dovrebbe aprirsi e inghiottire il tuo corpo nelle viscere scure del mare”, pronunciò ogni singola parola con tono calmo avvicinandosi al suo rivale.
Il turista non osò rispondere. Finì la sua birra fino all’ultimo goccio, dopodiché lanciò la bottiglia vuota nel mare. “Potrei scommettere che quella poco di buono ha lasciato anche te”, il turista si mise a ridere sonoramente, pulendosi le labbra con l’avambraccio dalle ultime gocce di birra.
“Mi ha lasciato un bel po’ di tempo fa”, lasciò in sospeso la frase indeciso se continuare o meno
“Era il 15 dicembre del 2014 e mi ha lasciato all’ospedale di Atene. Stava dando alla luce tua figlia. Non lo sai, ma quando era scappata era incinta di quattro mesi. Aveva paura che avresti ucciso sia lei che la bambina alla notizia. I medici hanno detto che è morta a causa di un ematoma intracranico durante il parto, causato dai numerosi traumi subiti”. Si interruppe di colpo cercando le parole giuste per concludere la frase. “Puoi dire di essere stato tu a ucciderla”, concluse il ragazzo.
Le parole gli uscirono fiere e oneste come se avesse aspettato tutta una vita a pronunciale.
Si costrinse a non distogliere lo sguardo, non doveva esserci nessuna paura. Doveva sentire quella frase senza la minima sbavatura o incertezza nella voce.
L’americano estrasse dalla tasca il motivo per cui pochi attimi prima era sceso sottocoperta. Gli puntò una pistola al viso. Il turista sentì il bordo della pistola fredda premergli sulla fronte e non osò muoversi. Era la prima volta che qualcuno gli puntava una pistola addosso. La prima volta che da carnefice era passato a vittima.
“Non oseresti mai! Sei viscido e codardo come lei”, urlò con disprezzo il turista.
L’americano sentì uno sputo finirgli in mezzo agli occhi e imbrattargli il volto. Guardò la costa in cerca di aiuto come se dalla terra ferma potesse spuntare un inaspettato aiuto.
“Sì hai ragione. Ho aspettato che venissi tu a cercarmi e questo conferma che sono un viscido codardo”, strinse i denti e si puntò con le scarpe al pavimento della nave pronto a subire il contraccolpo e sparò al lato dell’orecchio destro del turista. Il colpo passo sopra la spalla lasciando un sibilo che si spende dopo pochi istanti all’orizzonte.
Il turista si portò subito entrambe le mani all’orecchio e stordito precipitò a terra, livido di paura.
L’americano rimase in piedi e puntò il suo piede tra il fianco e il gomito del turista. Premette con il piede sinistro sull’inguine, non lasciando all’avversario possibilità di muoversi.
Il turista prese a tremare nonostante il caldo soffocante e non osò muoversi temendo un secondo colpo, questa volta più preciso.
Si inginocchiò sopra di lui e il turista chiuse gli occhi di riflesso come in attesa del peggio.
“Non voglio che mi implori di risparmiarti”, disse l’americano. “Voglio solo che tu capisca cosa si prova. Cosa si prova a rimanere a terra feriti nella stessa posizione in cui ti trovi tu ora. Chiudere gli occhi e affidare a un’altra persona la tua vita. Non puoi pregarmi di risparmiati perché non funzionerà, non puoi fare nulla per evitare la tua morte. Solo un mio capriccio può salvarti la vita”, si abbassò su di lui allentando pian piano la presa. “Potrei sparare e nessuno sentirebbe lo sparo. Nessuno troverebbe il tuo corpo e soprattutto nessuno verrebbe a cercarti. Ma ora ti porterò al porto e te ne andrai da quest’isola. Ti dimenticherai di essere venuto qui e non tornerai mai più”.
Il turista annuì. Dalle labbra livide e tremanti non uscì nessuna parola.
Due ore dopo erano entrambi al porto: l’americano vide il turista salire sul traghetto che l’avrebbe riportato a casa.
Rimase al porto finché non vide la nave scomparire all’orizzonte. Si rese conto di provare un senso di liberazione. Poter confidare il triste destino della donna che amava era risultato più piacevole di quanto avesse potuto immaginare. Non importava se si era confidato con la persona che detestava di più al mondo. Non si era pentito neanche per un momento di non avergli detto tutta la verità.
Di fretta andrò a prendere la bimba dalla baby-sitter che l’aveva tenuta dalla mattina presto. Non notò fortunatamente nessuna somiglianza al padre. Sorrise stringendo la mano alla piccola Nina. Aveva gli stessi occhi della madre.
Non c’era vita prima di lei e l’avrebbe difesa a qualunque costo.